giovedì 22 dicembre 2016

LOTTA DI CLASSE NELLA FORMA POPULISTA di Carlo Formenti

[ 22 dicembre ]

Il fine settimana scorso si è svolto a Roma un seminario promosso dalla Rete dei Comunisti.

Pubblichiamo quello che ci pare il contributo più importante, pienamente condivisibile, quello inviato da Carlo Formenti [nella foto]


«Il documento preparatorio per il forum nazionale del 17/18 dicembre pone giustamente l’accento sulla necessità di un’approfondita riflessione sullo scenario geopolitico.

Si tratta di un tema che ha tradizionalmente ricevuto grande attenzione dai “classici” —Marx e Lenin su tutti—, mentre sembrava quasi sparito negli ultimi decenni, forse perché anche gli intellettuali marxisti, o supposti tali, dopo il crollo dei Paesi socialisti, hanno finito per accreditare la tesi di un mondo unificato dall’egemonia liberal liberista e sostanzialmente “pacificato” e integrato sotto il domino imperiale statunitense. A qualche anno dall’esplosione (non dall’inizio, perché quello risale agli anni 70 del 900) della più grave crisi capitalistica dopo la grande crisi del 29, e mentre la perdita di capacità egemonica degli Stati Uniti si fa sempre più evidente, di quella illusione non resta nulla.

I primi a riconoscerlo sono proprio gli intellettuali liberisti: vedi l’intervista al “Corriere della Sera” rilasciata in data 1 dicembre da Francis Fukuyama, il quale associa il declino dell’egemonia americana a una vera e propria disintegrazione dell’ordine postbellico che minaccia la stessa sopravvivenza della democrazia liberale; vedi anche un recente articolo dell’Economist intitolato “Economists cannot stop Trump, but perhaps they can understand it”, nel quale, da un lato, si ammette che il processo di globalizzazione è la causa fondamentale degli intollerabili livelli di disuguaglianza che hanno favorito la Brexit, il trionfo di Trump e quello del No in Italia, dall’altro si afferma che la risposta al “trumpismo” dev’essere cercata sul piano politico e non su quello economico. Fra i nostri avversari si va insomma diffondendo la consapevolezza che il mondo sta attraversando una crisi analoga a quella che segnò la fine della prima grande globalizzazione un secolo fa. Una crisi tutta politica, nel senso che, dopo quarant’anni di “guerra di classe dall’alto”, la disuguaglianza ha raggiunto livelli tali da mettere in crisi la capacità del sistema liberal democratico (ormai compiutamente postdemocratico) di ottenere consenso sociale. Detto altrimenti, il capitale incontra crescenti difficoltà a fronteggiare la caduta del saggio di profitto che lo perseguita dagli anni Settanta del secolo scorso come ha fatto finora, cioè attraverso la distruzione sistematica di welfare, salari, diritti sociali, sindacati, ecc. E ciò avviene nel momento in cui emergono nuove potenze (Cina, Germania e in minor misura la Russia) che aspirano a lottare per il primato mondiale, acuendo i conflitti interimperialistici.

Mi pare il caso di insistere sulla natura eminentemente politica della crisi in opposizione a quelle tesi “economiciste” che, pur richiamandosi al marxismo, dimenticano che per Marx il capitalismo va interpretato in primo luogo come un rapporto di forza fra le classi sociali e non come il prodotto di presunte “leggi” dell’economia. Questa distorsione del marxismo ha generato una visione che vede la globalizzazione come un processo oggettivo e lineare, per cui non riesce oggi a capire e a interpretare le controtendenze in atto.

Apro qui una parentesi sulla questione della Cina. Il documento lascia aperto un interrogativo in merito all’identità socioeconomica di quel grande Paese; si chiede cioè qual è il suo rapporto con il modo di produzione capitalistico: lo sta usando per crescere e rafforzarsi o ne è usato? È lo stesso interrogativo che sollevava Arrighi qualche anno fa. Ebbene io credo che oggi il dubbio sia del tutto sciolto: la Cina è a tutti gli effetti una grande potenza capitalistica, ormai quasi pronta a battersi con gli Stati Uniti e la Germania per conquistare l’egemonia mondiale sul piano economico, politico e militare. Se questo è vero, le analogie con la crisi della prima globalizzazione fra fine 800 e primo 900 si fanno ancor più stringenti e, anche se occorre ovviamente tenere presente che la storia non si ripete negli stessi termini, io credo che le tre grandi alternative di allora —sia pure con le varianti del caso— tornino di attualità: un primo scenario caratterizzato da protezionismo, lotta per il controllo delle aree neocoloniali, fascistizzazione, guerra; un secondo scenario, caratterizzato dal tentativo di “incivilire” la globalizzazione attraverso accordi fra potenze e una serie di concessioni alle classi subordinate per recuperarne il consenso; infine un ultimo scenario, caratterizzato dalla intensificazione della lotta di classe e dall’apertura di opportunità per una transizione a una civiltà postcapitalista. 
Stante che oggi, come giustamente recita il titolo del documento citando Gramsci, siamo in una situazione in cui “Il vecchio muore ma il nuovo non può nascere”, si tratta di capire come possiamo lavorare per accelerarne la nascita definendo: 1) a quali soggetti sociali dobbiamo rivolgerci; 2) quale forma politica occorre adottare per organizzarli; 3) su quali obiettivi immediati e a medio termine va impostata la mobilitazione.
In merito al primo punto ripropongo qui sinteticamente i termini della polemica che da qualche anno vado conducendo nei confronti degli intellettuali postoperaisti. A Franco Bifo Berardi occorre riconoscere il merito di averne sintetizzato le posizioni in un suo recente intervento. Anche lui coglie analogie con la situazione di un secolo fa, avanzando previsioni catastrofiste in merito ai rischi di fascistizzazione perché, scrive 
“ogni tentativo democratico di sottrarsi alla governance neoliberale è fallito: la volontà cosciente del corpo sociale non è in grado di agire sull’astrazione finanziaria, quindi reagisce secondo le linee dell’identità antiglobale”. 
Siamo di fronte a una visione ultraeconomicista che ipostatizza l’invincibile potenza dell’astrazione finanziaria, alla quale può opporsi solo la presunta potenza emancipatrice della rivoluzione digitale, per cui Bifo vede nella “Silicon Valley globale” il solo terreno possibile di un’inversione di tendenza. Solo la classe cognitiva può salvarci dal disastro, perché 
“Solo quando la soggettività politica corrisponde alle forze sociali che muovono la macchina sociale diviene possibile un cambiamento cosciente. Solo la ricomposizione della minoranza sociale costituita dai lavoratori cognitivi, cioè coloro che programmano la macchina globale e le permettono di evolversi e di funzionare, potrà mettere in moto un processo di trasformazione reale”. 
I postoperaisti hanno mandato in soffitta molti dogmi marxisti, in compenso qui vediamo come abbiano viceversa conservato quelli meno difendibili: l’idea secondo cui la rivoluzione è possibile solo se e quando le forze produttive siano sufficientemente sviluppate (un’idea che fa però capolino anche in alcuni passaggi del documento preparatorio del vostro forum…); l’idea che la coscienza antagonista si concentri negli strati sociali vicini al punto più alto dello sviluppo capitalistico (e poco importa se questi strati sono oggi i più integrati nel sistema di dominio); l’idea che la scienza e la tecnica siano “neutrali”, che incorporino cioè una potenza di emancipazione di cui è possibile appropriarsi con relativa facilità. 

Si tratta di una visione “immanentista” —le energie della trasformazione sono tutte interne al rapporto di capitale— che induce chi la condivide a perdersi in estatica contemplazione del culo del capitale scambiandolo per il sol dell’avvenire. 

Si tratta, infine, di una visione aristocratica che indica in una tecnoélite l’unico soggetto in grado di evitare il disastro della fascistizzazione, mentre nutre un profondo disprezzo nei confronti degli strati inferiori di classe e degli esclusi: gli operai impoveriti che hanno votato Trump vengono accusati di essere pronti ad arruolarsi nelle fila di un “nazional operaismo” emulo del nazional socialismo. Il nostro arriva a parlare del “trumpismo alimentato dalla rabbia impotente del popolo demente. Evidentemente per certi intellettuali il popolo è demente quando non aderisce a modelli di comportamento che confermino i loro desideri, per cui tutta la composizione di classe al di fuori dai loro salotti è plebaglia reazionaria.

Io penso invece, per citare un testo di Mimmo Porcaro che riprende le tesi del mio ultimo libro, che il soggetto, 
“non può essere dedotto da categorie sociologiche, non può essere desunto dalle dinamiche generali del capitale, può essere individuato solo in seguito a ‘un’analisi concreta della situazione concreta’, condotta in ciascuna specifica congiuntura della lotta di classe. Non si può quindi prevedere quale sia il soggetto (o, meglio, la convergenza di diversi soggetti) che di volta in volta diviene protagonista dei conflitti: la rivolta e le sue forme sono per definizione imprevedibili proprio perché fuoriescono dalla routine della riproduzione del capitalismo”. 
È in base a tale impostazione metodologica che penso che la nostra attenzione debba rivolgersi soprattutto verso gli strati bassi della società, verso le resistenze alla modernizzazione piuttosto che verso il vertice della modernizzazione stessa; verso la periferia, il “fuori” dal capitalismo, una periferia che non si identifica necessariamente con i rapporti sociali precapitalistici ma, cito ancor Porcaro; 
“può essere il prodotto del movimento incessante della modernizzazione che sempre distrugge o rende periferiche le forme di vita precedenti (anche quelle già capitalistiche ma non più confacenti alle aumentate esigenze dell’accumulazione)”. 
Per inciso ritengo che quest’ultimo tema meriterebbe un approfondimento che non ho qui modo di compiere, perché sono convinto che le nuove forme di sfruttamento capitalistico, anche all’interno dei cosiddetti paesi avanzati, siano caratterizzati da una logica di tipo neocoloniale. Chiarisco infine che questa attenzione verso il “basso” non nasce dal fatto che io lo ritenga la sede “naturale” dell’antagonismo, bensì perché è oggi concretamente al centro delle sole forme visibili di rivolta.

Passando dal soggetto alla forma organizzativa. Quanto fin qui affermato mi induce ad associare le esperienze più efficaci della lotta di classe alla forma populista, soprattutto alle sue varianti bolivariane in America Latina, al fenomeno Sanders negli Stati Uniti e alle esperienze europee di Podemos, e di Syriza prima della capitolazione. 
Questo vuol dire che penso che il populismo sia di per sé in grado di far fronte alle sfide che ci troviamo di fronte e di indirizzarle verso esiti progressivi? Assolutamente no, penso però che il populismo sia la forma storicamente determinata che assume attualmente la lotta di classe, come risultato di un processo che ha dissolto la compattezza sociologica della classe e ne ha distrutto le tradizionali forme di organizzazione e di rappresentanza al punto che oggi è la stessa lotta di classe che si presenta come populista. Penso quindi che il populismo non sia un nemico da esorcizzare bensì un campo nel quale noi comunisti dobbiamo situarci senza esitazione per condurre una lotta per l’egemonia finalizzata a spingere il populismo stesso in una direzione anticapitalista e socialista.
Infine gli obiettivi a breve-medio termine. 
Io credo che il primo sia l’uscita dell’Italia dalla Ue, un obiettivo che non può configurarsi altrimenti che come una battaglia per riconquistare sovranità popolare e nazionale. Le sinistre hanno accantonato ogni riflessione sulla questione nazionale a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, quando sembrava che le lotte di liberazione dei popoli del Terzo Mondo dal dominio coloniale fossero giunte a compimento, né sono tornate a occuparsene quando nuove forme di dominio coloniale e semicoloniale sono venute affermandosi (e non solo nel Terzo Mondo: vedi il caso greco!). Dai “classici” —sia Marx che Lenin— la questione è sempre stata affrontata in modo pragmatico, mettendola in relazione ai concreti contesti storici, culturali e sociali. Né Marx né Lenin sono stati assertori di una concezione astratta dell’internazionalismo, avendo piuttosto costantemente cura di distinguere fra cosmopolitismo borghese e internazionalismo proletario: il primo teso all’abbattimento dei confini per promuovere l’internazionalizzazione della produzione e degli scambi commerciali e finanziari, il secondo concepito come costruzione di solidarietà fra lotte nazionali, perché la lotta di classe può svilupparsi solo a tale livello. Chi oggi contesta quest’ultimo punto ignora il fatto che la lotta di classe è anche e soprattutto conflitto fra luoghi (territori) e flussi (di capitale, merci, informazioni, élite) che colonizzano e sfruttano i luoghi e, al tempo stesso, tende di fatto a presumere un’inesistente convergenza di interessi fra mobilità dei capitali e mobilità della forza lavoro.

Posto che solo gli imbecilli parlano ormai del neoliberismo come fine dello stato, visto che a tutti è evidente come lo stato abbia svolto e svolga un ruolo determinante nella costruzione del sistema ordoliberista, la questione riguarda piuttosto il divorzio fra i due termini del binomio stato-nazione: ad andare in pensione non è lo stato, che deve anzi promuovere e garantire il funzionamento del mercato e indottrinare la popolazione con la narrazione dell’individuo imprenditore di sé stesso, oltre a smantellare tutti gli strumenti di autodifesa delle classi subordinate, bensì la nazione in quanto ambito giuridico, economico e politico in cui far valere i diritti collettivi del popolo, per cui il superamento dello stato-nazione si presenta come un regresso storico e non come un salto in avanti progressivo, come erroneamente sostenuto da (quasi) tutte le sinistre che, non a caso, hanno stupidamente regalato alle destre il monopolio della lotta contro la perdita di sovranità. 

I populismi di destra e di sinistra sono accomunati dall’idea che sia necessario rivendicare il diritto di comunità politiche definite su base territoriale di gestire la loro vita collettiva in modo relativamente autonomo da interferenze esterne, che occorra lottare per ottenere un certo grado di indipendenza rispetto alle forze e ai flussi globali che frustrano qualsiasi tentativo di controllo delle comunità sul proprio destino, ma le concezioni di sovranità cui si rifanno sono radicalmente diverse: da un lato, abbiamo un immaginario etnico improntato alla coppia sangue e suolo, dall’altro una visione della sovranità popolare come mezzo di inclusione, di reintegrazione nello stato di una cittadinanza che se ne sente sempre più esclusa a mano a mano che vengono indebolite o spazzate via le istituzioni di partecipazione e rappresentanza politiche. Una sovranità concepita come arma di lotta del popolo contro le oligarchie, dei molti contro i pochi, dei poveri contro i ricchi.

In questa situazione le forze che si sono impegnate nella campagna per il No da una prospettiva coerentemente anticapitalista dovrebbero impegnarsi per costruire un fronte politico e sociale che saldi le lotte contro le controriforme sociali degli ultimi trent’anni, incrociando il conflitto di classe con i conflitti generati dalle nuove forme di esclusione che colpiscono larghi strati dei classe media, dovrebbero lavorare alla costruzione di un sindacalismo sociale in grado di restituire rappresentanza agli interessi delle classi subordinate abbandonate da un sindacalismo confederale sempre più complice delle élite dominanti. Si tratta, insomma, di saldare in un unico fronte di lotta l’opposizione ai tre volti (regime politico, controriforma sociale, vincolo europeo) di quello che appare un unico avversario saldamente integrato nelle istituzioni del capitale globale».

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